Home 2010 26 Ottobre
26 Ottobre
Intervista al Sen. Nicola Rossi PDF Stampa E-mail

Tremonti ha detto che le risorse per l’università arriveranno con il mille proroghe di fine anno ed è sbucata l’ipotesi di vendere le frequenze televisive per fare cassa, un’ipotesi già avanzata da Bersani giovedì in articolo sul Corriere della Sera. Nicola Rossi, senatore del Pd e membro dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà, è contrario. «L’università italiana? È morta di sanatorie. Il paese deve scegliere: affrontare problemi socialmente scomodi oppure collocarsi sulla frontiera della conoscenza. Se non si fanno riforme vere, i prossimi vent’anni sono quelli che ci separano dalla povertà».

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Non possiamo più permetterci un’università quasi gratuita PDF Stampa E-mail

In questi giorni molti ragazzi iniziano l'università. Per alcune famiglie si tratta della prima generazione che può continuare gli studi dopo la scuola. Che immagine hanno questi ragazzi del Paese in cui diventano cittadini adulti? In molti atenei le lezioni non cominciano: interi corsi di laurea sono stati rinviati (per ora) al secondo semestre. Gli studenti si aggirano spaesati per aule vuote, preoccupati dall'incertezza che li attende.

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In rosso la più grande università d'Europa PDF Stampa E-mail
La Sapienza, la più grande università d'Europa, chiuderà l'anno con un bilancio in rosso di 8 milioni: "Ho ridotto tutto quello che potevo ridurre - ha detto a Repubblica Tv il rettore Luigi Frati - se il ministro ritiene, mi commissari". Il presidente della Conferenza dei rettori, Enrico Decleva, ora ricorda: "La quantità di finanziamenti prevista nel decreto legge è minima rispetto alle esigenze per il 2011". Il rettore del Politecnico di Milano 3, Giulio Ballio, a Sussidiario.net 4 spiega: "Siamo di fronte a una riduzione del 15% del finanziamento statale all'università. Se questa politica viene mantenuta ci saranno atenei che dovranno portare i libri in tribunale e altri che dovranno ridurre pesantemente le loro attività, i servizi primari, il riscaldamento e il condizionamento delle aule". (La Repubblica 20-10-2010)
 
Le manovre anticrisi demoliscono il mito del posto pubblico in europa PDF Stampa E-mail

C’era una volta il posto pubblico: fisso, inamovibile, a volte fannullone, con lo stipendio indicizzato all’inflazione, ferie abbondanti, tredicesime e quattordicesime, pensioni più ricche e prepensionamenti più facili. Era il posto di lavoro sognato da tre generazioni di europei in nome della sicurezza, dello status e dei privilegi derivanti dall’essere “fonctionnaire”, “civil servant”, “regierungsbeamter” o “funcionario público”. Lo “statale”, a differenza del dipendente privato, non solo non era licenziabile: non correva nemmeno il rischio del fallimento del datore di lavoro. Ma da quando la crisi greca ha ricordato all’Europa che anche uno stato può fare bancarotta, il funzionario della Pubblica amministrazione è diventato un po’ più come gli altri. E il mito del posto pubblico non c’è più. Dai britannici liberisti ai francesi statalisti, per ridurre deficit stratosferici e rassicurare i mercati, tutti hanno iniziato a tagliare stipendi, bonus e dimensioni della burocrazia pubblica.

Il record va al britannico David Cameron con i 490 mila “civil servant” cancellati dalla Spending Review. In realtà potrebbero essere di più, dice il Chartered Institute of Personnel and Development: “750 mila entro il 2015/16 se la coalizione rispetterà i suoi piani di spesa di lungo periodo”. Quelli che andranno in pensione non saranno sostituiti, ma gran parte saranno semplicemente licenziati.

In Francia Nicolas Sarkozy ha deciso di bloccare gli stipendi e non rimpiazzare la metà dei “functionnaire” che vanno in pensione: dal 2007 sono scomparsi 100 mila posti, nel 2011 ne spariranno altri 31.638.

In Portogallo, dopo aver congelato i salari nel 2010, il socialista José Socrates sta per annunciare un’altra mannaia: stipendi ridotti del 5 per cento e stop a promozioni e assunzioni.

A inizio mese, il premier spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero ha detto che ci vorranno almeno tre anni affinché i “funcionarios” recuperino il taglio del 5 per cento di stipendio deciso in primavera. In Irlanda, dove i salari sono stati ridotti del 14 per cento, l’accordo tra governo e sindacati per stringere ancora sui funzionari è in bilico.

In Grecia il governo di George Papandreou ha ridotto gli stipendi pubblici, bloccato le assunzioni, aumentato l’età pensionabile e amputato tredicesime e quattordicesime. A inizio mese i precari del ministero della Cultura hanno occupato l’Acropoli contro il mancato rinnovo del contratto, allungando la lista di controllori aerei, portuali e ferrovieri in sciopero da mesi.

Il 21 settembre, la Repubblica ceca ha assistito alla più grande manifestazione dalla caduta del comunismo: 40 mila funzionari nelle strade di Praga contro il taglio salariale del 10 per cento.

In Ungheria il premier Viktor Orban ha limitato gli acquisti di auto e telefoni di servizio. In Lettonia, gli statali hanno perso in media il 30 per cento di reddito.

Nessuno è risparmiato, nemmeno la ricca Germania: Angela Merkel ha annunciato la scomparsa di 15 mila funzionari entro il 2014.

L’austerità ha colpito perfino la nuova frontiera del posto pubblico: quella ricca, cosmopolita e ambita dei funzionari dell’Unione europea. Alle prese con ristrettezze di bilancio, la Commissione ricorre a lavoratori interinali e contratti temporanei, rinunciando a rimpolpare le file permanenti dell’Eurocrazia. Dopo aver dimezzato gli aumenti di quest’anno, ora vuole tagliare lo stipendio degli euroburocrati dello 0,4 per cento. (Il Foglio 23-10-2010)
 
Le università inglesi verso business commerciali PDF Stampa E-mail

Rivoluzioni in atto al sistema del finanziamento delle università britanniche e il mondo accademico è in subbuglio. Ma non tutti hanno diritto di lamentarsi. Il governo di Cameron ha proposto di liberalizzare le tasse universitarie. Notare che in primavera, il suo co-pilota Clegg voleva abolire le tasse del tutto, ma allora eravamo ancora in campagna elettorale e si strombazzavano titoli inneggianti alla grande riforma democratica. La proposta in sé non è cosa per cui scandalizzarsi. Già nel 2001 Tony Blair aveva messo un cap di £3000 annuali minime, le cosiddette tuition fees. Ma la revisione di Lord Browne di questa settimana ha stabilito un cap illimitato: ogni università sceglierà le cifre da imporre ai suoi studenti perché si conquistino il pezzo di carta. Il mercato libero e sfrenato entra in università e noi ci apriamo al modello americano: gerarchia, diversificazione, e stratificazione universitaria a go-go. Ai miei tempi, nel pieno della ‘Cool Britannia’, ubriaca di slogan come ‘education, education, education’, non si pagava una lira o meglio, una sterlina, di tasse universitarie: a livello di principio, l’istruzione doveva essere accessibile a tutti, ma la selezione era dura e i requisiti per entrare rigorosi. In pratica non era per tutti, va da sé, ma si proponeva di esserlo. In quindici anni, eccoci qui: con un cap illimitato le 20 università migliori del Regno Unito saranno tentate di alzare le tuition fees a numeri da capogiro. Se le cifre si aggireranno a una media di £7000, per quelle al top, come Oxford e Cambridge, c’è anche da considerare il costo aggiuntivo del sistema dei tutorials (che offre agli studenti supervisioni uno-a-uno con il docente): si vocifera di tasse che raggiungeranno £9000 annuali.

Era inevitabile, visti i tagli radicali annunciati la settimana scorsa ai finanziamenti pubblici delle università. Ecco i dati: 4.2 miliardi di sterline, corrispondenti all’80% dei fondi predisposti per l’insegnamento. Orrore e raccapriccio, ma anche questi vanno visti in prospettiva. Alzando le tasse, le università più prestigiose si difenderanno dall’accetta, e attrarranno i migliori accademici e studenti internazionali, aggiungendo lustrini alle loro già consolidate reputazioni. I fondi privati verranno potenziati a dismisura e non solo attraverso le tasse per gli studenti.

Le altre istituzioni (30 o 40, un quarto del settore in tutto) quelle che sopravvivono con approvvigionamenti statali fino all’80%, dovranno lottare per sopravvivere, perché, molto semplicemente, non potranno alzare le fees a dismisura: la loro reputazione non consentirebbe loro di arrogarsene il diritto, né gli studenti potrebbero comunque permettersi cotanto.

Vi lascio in bellezza con due considerazioni. Da oggi, qui, dobbiamo iniziare a scordarci l’idea di un’università fondamentalmente pubblica, accessibile a tutti. Non può esistere se vuol essere competitiva. Le università inglesi difficilmente potranno opporre resistenza a una repentina metamorfosi in business commerciali: docenti convertiti in agenti di mercato intenti a vendere corsi appetitosi, e studenti trasformati in consumatori attenti a comprare la loro fetta di scienza. E nella progressiva divisione tra università col pedigree che vantano superstar accademiche contro istituzioni in perenne lotta darwiniana per sopravvivere, mi chiedo con tristezza, dove finirà la tanto decantata mobilità sociale inglese. (S. Ferrara, Il Fatto Quotidiano 18-10-2010)
 
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