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Tasse universitarie: fatti, miti e ideologia
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Attualmente, per legge, le tasse universitarie a carico degli studenti non possono superare il 20% del Fondo di Finanziamento Ordinario, il cui resto lo pagano tutti gli altri cittadini, anche chi l’università non la fa, tramite la fiscalità generale. L’argomento secondo il quale in un sistema pubblico le famiglie a basso reddito pagano l’università ai ricchi non considera che le aliquote fiscali crescono con il reddito, e andrebbe esteso a tutte le attività finanziate dallo Stato ma fruite in modo differenziato secondo il reddito. In teoria, l’imposta progressiva sul reddito insieme con la tassa di successione dovrebbero garantire un’equa ridistribuzione del reddito dando “pari opportunità iniziali” a tutti in quanto, in questo modo, chi è più ricco contribuisce più degli altri a pagare i servizi pubblici: una maniera di equilibrare maggiormente il sistema potrebbe essere quella di abbassare le aliquote dei ceti meno abbienti. Dunque non è vero che nel sistema attuale i poveri pagano l’università ai ricchi; il problema è casomai quello di dare più opportunità alle classi più povere, di rendere accessibile al maggior numero possibile di cittadini l’accesso all’istruzione universitaria e, dunque, di costruire un sistema socialmente più equo oltre che più efficiente e di migliore qualità. Il sistema proposto di tasse e prestiti è funzionale a questo scopo?

Per prima cosa è necessario ricordare che quando si considera la suddivisione della popolazione in fasce di reddito ci s’imbatte nel problema dell’evasione fiscale, che affligge l’Italia nel suo complesso. A questo proposito è sufficiente notare che meno del 15% della popolazione dichiara un reddito superiore a 29.000 euro/anno. Questa situazione ci ricorda l’arbitrarietà nell’identificazione, da un punto di vista fiscale, delle famiglie più abbienti. E’ ovvio che una seria politica di lotta all’evasione fiscale sia indispensabile per qualsiasi decisione lo Stato debba prendere, compreso il sistema dei prestiti d’onore. Non è forse un caso che nei paesi dove questo sistema è applicato (Stati Uniti, Inghilterra) non ci sono dei problemi d’evasione così strutturali come in Italia. Dunque, una seria lotta all’evasione fiscale non solo potrebbe fornire più risorse allo Stato, ma potrebbe anche non falsare le regole del gioco.

E’ chiaro che con il sistema di alte tasse e prestiti chi ha una famiglia abbiente non si deve indebitare. Invece, per chi non ha disponibilità, studiare diventa una scommessa, ovvero un’ipoteca sul proprio futuro. Questa situazione non può che disincentivare i meno abbienti allo studio allargando la forbice sociale. Inoltre bisogna considerare la proposta nel contesto attuale della realtà italiana, in cui la disoccupazione giovanile (15-24 anni) è del 30%, in cui si prevede che molti lavoratori atipici potranno aspirare solo all’assegno sociale (oggi di 411 euro), e con i redditi che si prospettano in futuro per gli studenti attuali la percentuale di chi non sarà in grado di restituire la somma potrebbe essere altissima generando dunque “una bolla universitaria” come sta avvenendo negli Stati Uniti: mentre le tasse universitarie sono in aumento, i rendimenti di un diploma di laurea sono in calo e la solidità dei prestiti agli studenti è minacciata da crescenti tassi di insolvenza.

Non va dimenticato poi che i prestiti per coprire le spese d’istruzione si aggiungono all’indebitamento delle famiglie, una delle principali cause dell’attuale crisi finanziaria. Per questo motivo, anche negli Stati Uniti, ci sono delle forti critiche al sistema dei prestiti. Per fare un esempio, l’86% dei medici negli Stati Uniti si laureano contraendo un debito medio di 155.000 dollari, cosa che sta portando a una notevole contrazione del numero di medici, che pure sono necessari al paese. Questo esempio mostra chiaramente che l'istruzione non è un investimento a favore del singolo ma a favore della comunità e per questo deve essere pubblica e finanziata dallo Stato: è la comunità nella sua globalità, a prescindere dal censo, che trae giovamento dall’istruzione.

Nella proposta è tuttavia previsto che vi sia un certo numero di “insolvenze”. A questo riguardo si nota che «naturalmente questo comporterà che si debba prevedere una certa percentuale di casi in cui la restituzione non avverrà; si può però evitare che ne derivi un maggior onere per lo Stato stabilendo che questa percentuale sia coperta (in tutto o in parte) dalle università stesse interessate, che così ne risulteranno responsabilizzate sia riguardo alla qualità degli studenti ammessi sia riguardo alla qualità dell’insegnamento».

Dunque lo Stato (o anzi una fondazione a partecipazione statale già prevista dal DL 70 del 13 maggio 2011) anticipa dei soldi all'università per ogni studente che non può permettersi di pagare le tasse; poi, se lo studente trova un buon lavoro restituisce i soldi allo stato, altrimenti è l'ateneo che deve restituirli. In questo modo, non solo gli atenei sono costretti ad agire come imprese private che investono sulla possibilità che i propri studenti trovino lavori ben remunerati, ma diventa il mercato del lavoro a influenzare cosa e come s’insegna. E’ ovvio che la scommessa abbia tanto più probabilità di successo quanto più la famiglia dello studente è agiata e quanto più una laurea è spendibile nel mercato del lavoro. Minimizzando il rischio si è naturalmente portati a concedere prestiti a studenti provenienti da famiglie più abbienti che studiano materie più vicine al mondo delle professioni. Vale la pena ricordare, come ha ben spiegato il premio Nobel per la fisica Sheldon Glashow, che il “ritorno” economico delle scienze di base, ammesso che sia possibile quantificarlo concretamente, richiede generalmente un tempo scala più lungo di quello rilevante per la vita di una singola persona.

In conclusione, la vera e unica ragione per aumentare le tasse è la compensazione della diminuzione del finanziamento pubblico all'università, da attuare secondo i dettami dell’ideologia neo-liberista, e non il perseguimento di una maggior qualità della ricerca o dell’insegnamento o di una maggiore equità sociale. Tuttavia, piuttosto che diminuire, un sistema basato su alte tasse universitarie e prestiti d’onore, aumenterebbe la differenza di possibilità e opportunità tra i ceti più e meno abbienti, allargando la forbice sociale e rendendo il sistema sostanzialmente più iniquo e con meno giustizia sociale. Inoltre, questo sistema metterebbe in grande difficoltà gli atenei nei territori economicamente più deboli abbandonando a se stesse le zone più depresse del paese. Infine, questo sistema non può che avere delle conseguenze deleterie per la stessa istituzione universitaria, condizionando non solo la scelta di chi avrà possibilità di studiare, ma anche di cosa sarà più conveniente studiare, secondo una logica assoggettata alle richieste di un malinteso mercato.
(Fonte: F. Sylos Labini, scienzainrete.it 07-06-2011)