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25 Luglio
Numero chiuso se gli sbocchi sono limitati PDF Stampa E-mail
Ho appena finito di leggere tutti e 200 i commenti a questo articolo del Corriere http://27esimaora.corriere.it/articolo/troppo-bravi-per-lavorare/ dove si spiega che fine fanno i laureati in Italia (principalmente quelli di materie umanistiche). La situazione è desolante e mi chiedo perché si sia arrivati alla mortificazione di intere generazioni di giovani, illusi di salire un gradino sociale laureandosi e che si ritrovano senza lavoro. Molte persone chiedono di tornare ad un'università di "èlite" come una volta, io penso che bisognerebbe introdurre il numero chiuso in tutte le facoltà universitarie con un numero limitato di posti. Io stessa ho frequentato prima una facoltà "libera" per poi trasferirmi a gambe levate in una a numero chiuso con esame molto selettivo, dove ho trovato una qualità dell'insegnamento migliore, così come tutti i servizi. Le facoltà umanistiche dovrebbero adottare questo sistema prima ancora di tutte le altre, visto che gli sbocchi dei laureati in queste materie sono limitati.
(Fonte: Ylenia, nFA 28-06-2011)
 
Sull’espansione di un sistema d’istruzione terziaria PDF Stampa E-mail

Penso che ormai l'opzione di un sistema che preveda università di serie A e università di serie B non sia più esercitabile. Il mondo politico nei primi anni settanta ha unanimemente aderito agli slogan del "movimento studentesco" che consideravano perfino l'articolazione in tre diversi livelli di titoli universitari (diploma, laurea, dottorato) un complotto della bieca reazione in agguato per impedire la mobilità sociale. (come è noto il dottorato fu sdoganato dieci anni dopo da una proposta dell'allora deputato Alberto Asor Rosa). Gli istituti aggregati, previsti dalla riforma Gui (noto come Disegno di legge 2314) abbandonata nel 1968, avrebbero svolto il ruolo che in Gran Bretagna hanno svolto i Polytechnics (promossi formalmente a università all'inizio degli anni 90). I docenti di queste istituzioni hanno un carico didattico molto più oneroso ma non è richiesto che facciano ricerca scientifica.

Contro la proposta di creare "istituti aggregati" in grado di conferire diplomi ma non lauree, sul modello dei Polytechnics, si schierarono anche i sindacati dei docenti,  ben consci che la prevista espansione del sistema di istruzione terziaria costituiva una formidabile possibilità di carriera per assistenti e professori incaricati, che sarebbe stata però confinata in istituzioni di seconda classe con maggiori compiti didattici, per almeno la metà degli iscritti ai sindacati, qualora avesse prevalso l'ipotesi degli "istituti aggregati", prevista dal disegno di legge governativo.

Negli anni successivi, prima dell’esplosione delle immatricolazioni (come percentuale di una coorte), istituti analoghi ai polytechnics avrebbero potuto sorgere come continuazione degli istituti tecnici, utilizzando ad esempio le migliaia di miliardi (di lire) sperperate nella cosiddetta istruzione professionale. Ma né i sindacati né la confindustria vollero mollare l'osso della istruzione professionale, i cui finanziamenti furono gestiti per anni in modo clientelare attraverso una spartizione tra sindacati, confindustria e partiti. Nel frattempo la liceizzazione dell’istruzione secondaria e le difficoltà di reclutare una docenza competente in materie tecniche e scientifiche attraverso l'assurdo sistema delle "graduatorie", ha portato ad un declino (in particolare delle iscrizioni) degli istituti tecnici. Io ritengo improbabile che possano avere successo gli istituti tecnici superiori di recente istituiti (e molto poco pubblicizzati) come alternativa all’iscrizione all'università.

Sarà difficile ormai dirottare gli studenti su studi "nonuniversitari". Considero la crescita (sempre in relazione alla consistenza numerica di una coorte) delle immatricolazioni, un fenomeno spontaneo non previsto né auspicato, cui è difficile rispondere con improbabili "numeri chiusi". Come ho scritto già diversi anni fa, in polemica con Panebianco che proponeva il numero chiuso generalizzato "nemmeno uno Stalin redivivo riuscirebbe a sbarrare la strada degli studi universitari a tanti giovani, in assenza di credibili alternative per continuare gli studi". Comunque per molti anni ho ritenuto che la scelta di non diversificare il sistema di istruzione terziario (sul modello, ad esempio della California) fosse sbagliata. Ora ho persino qualche dubbio. Saremmo stati capaci di creare un sistema senza vicoli ciechi come quello della California? Ricordo una conversazione con l'ex capo del dipartimento di matematica di UCLA, nel marzo 2008. Il mio collega si vantava del fatto che la metà dei "graduates" del suo dipartimento erano "transfer students" provenivano cioè dai gradini inferiori della piramide delle istituzioni terziarie. Quel che conta non è il dato (metà dei graduates) ma il fatto che un direttore di un dipartimento di matematica certamente tra i dieci migliori del mondo si vantasse di recuperare studenti che erano passati per istituzioni minori. Avrebbero avuto gli stessi sentimenti i professori italiani? Forse, con tutti i suoi difetti, è meglio un sistema confuso e indifferenziato come il nostro di un sistema fatto di vicoli ciechi, senza possibilità di passaggio da un livello all'altro.

Devo dire un'altra cosa. Il fatto che il nostro sistema sia indifferenziato dal punto di vista istituzionale non significa affatto che la diversificazione del corpo studentesco non si traduca in una diversificazione dei laureati. Ma, credo, la diversificazione passa attraverso le scelte autoselettive degli studenti. Nessuno studente debole in matematica ha il coraggio di iscriversi a ingegneria e meno che mai a fisica. Gli studenti più deboli, quelli che in un sistema articolato si iscriverebbero ad università di serie B finiscono per concentrarsi nei corsi di laurea di giurisprudenza, scienze politiche, ecc. Gli studenti migliori sono caratterizzati dai mancati o modesti ritardi nella laurea e dalla scelta di lauree considerate difficili o impegnative. Questo tipo di diversificazione ha i suoi costi. Non può succedere ad esempio che uno studente potenzialmente capace di seguire con successo un corso di laurea scientifico o tecnico ma che non ha la preparazione sufficiente per affrontare questo tipo di studi, trovi all'università la strada giusta per lui. Non è comunque una diversificazione istituzionale: il laureato in fisica di Lecce, laureato senza ritardi è decisamente più preparato e meglio selezionato del laureato in legge di Milano che si laurea con 4 o 5 anni di ritardo.
(Fonte: A. Figà Talamanca, nFA 30-06-2011)
 
I limiti del 3+2 PDF Stampa E-mail

A poco più di un decennio dal via la riforma del 3+2 mostra tutti i suoi limiti. Per la politica è stato un flop, per gli organi deputati a controllare pure. Per non dire degli studenti, che in sette su dieci preferiscono continuare a studiare. Mentre per il mercato del lavoro i laureati triennali sono una risorsa ancora da scoprire (e da capire). Perché se da un lato la metà dei laureati triennali a un anno dalla laurea ha già un'occupazione, dall'altro le aziende a caccia di laureati preferiscono puntare sulle specializzazioni. Con la conseguenza che il tiro sulla formazione triennale universitaria dovrà essere raddrizzato, per avvicinare il mondo produttivo ai baby laureati. I quali, dal canto loro, soprattutto quelli che decidono di intraprendere la libera professione, rivendicano competenze e ribadiscono professionalità, non più disposti a subire le pressioni dei colleghi quinquennali. Gli stessi che negli anni passati ne avevano addirittura messo in dubbio l'esistenza, proponendo, per esempio, l'abolizione del dpr 328/01 che nel ridisegnare l'accesso alle professioni ha creato le sezioni b degli ordini (quelle dei triennali appunto). E se reclamare un ruolo per i triennali significa passare per la creazione di un ordine autonomo sfilandosi dai Consigli nazionali

di riferimento, ancora meglio. L'attacco alla formazione. Ma prima dei balzi in avanti che andranno a incidere sul mercato del lavoro, non si può non ricordare che il sistema del 3+2 ha subito non poche stoccate. Tra le più significative quella della Corte dei conti che, nel suo Referto sul sistema universitario dello scorso anno, denunciava come la riforma targata Berlinguer-Zecchino avesse di fatto fallito nel principale obiettivo di collegare il mondo accademico con quello del lavoro e delle professioni. Tra gli effetti negativi della riforma per i magistrati contabili c'era anche quello di «aver generato un sistema incrementale di offerta con un'eccessiva frammentazione delle attività formative». Una situazione che aveva portato i diversi ministri (Moratti, Mussi e Gelmini) ad apportare correttivi al sistema. E la retromarcia iniziata nel 2007-2008 (picco massimo dell'offerta formativa) oggi, secondo i dati elaborati dal Consiglio universitario nazionale su fonte MiUR, ha già portato a risultati concreti; grazie alla dieta seguita dagli atenei i corsi di laurea, tra triennali e specialistici, sono scesi sotto la soglia di cinquemila passando dai 5.460 del 2007 a 4.597 del 2010. La stretta più evidente si registra proprio nelle lauree triennali scese da 2.782 del 2007/08 a 2.241 dell'anno in corso con un taglio del 19,4%. E quello ai professionisti junior. Ma a essere attaccato non è stato solo il sistema formativo, ma anche quello di accesso alle professioni ridisegnato dal dpr 328/01 emanato l'anno di entrata in vigore della riforma universitaria.

Su questo testo si era scagliato il Consiglio nazionale degli ingegneri presentando un ricorso contro la natura stessa del provvedimento che consente ai triennali di sostenere l'esame di stato e scegliere iscriversi all'albo degli ingegneri, sezione B, oppure a quello di geometri e i periti laureati. Un elemento di confusione che ha dato luogo a innumerevoli conflitti di competenza fra le professioni e ha portato lo stesso Cni nel corso di questi anni a sollevare questioni di legittimità di competenze degli stessi triennali.

II futuro dei triennali tecnici. Proprio a partire da questo scenario i triennali stanno optando per una via di fuga per non rimanere schiacciati nel groviglio delle competenze. Va in questo senso la proposta di un ordine ad hoc avanzata dai professionisti aderenti al Cup 3, il Coordinamento universitari e professionisti triennali, presentata in occasione delle audizioni per la riforma delle professioni che si sono svolte lo scorso anno. Un albo degli ingegneri tecnici triennali che, dicono i rappresentanti di categoria, se riuscisse a intercettare solo un 20% dei 25 mila laureati nelle classi di laurea in ingegneria vorrebbe dire, un ingresso di 5 mila juniores l'anno. Ma per il futuro delle professioni tecniche di primo livello c'è ancora altro in cantiere, perché i triennali rappresentano una chance anche per il futuro dei diplomati periti industriali, geometri e periti agrari. Le tre categorie, infatti, dal canto loro portano avanti l'idea di creare un ordine dei tecnici laureati per l'ingegneria unificando, nello stesso tempo, i collegi delle tre categorie professionali dei diplomati. Una casa comune suddivisa in tre settori: civile, industriale, agrario e questi, a loro volta, in sezioni o sottosettori, in modo da creare circa dieci aree di alta specializzazione, nelle quali troveranno accoglienza le diverse professionalità chiamate a rispondere alle esigenze del mercato.
(Fonte: B. Pacelli, ItaliaOggi 04-07-2011)
 
L'ANVUR trova casa al MIUR PDF Stampa E-mail
Doveva essere quel giudice terzo rispetto a tutto il mondo universitario. E doveva esserlo anche nei confronti di quello politico. E invece affonda le sue radici nel primo ed è legata a doppio nodo al secondo. Alla faccia di quell'imparzialità specificata nel suo decreto istitutivo. L'Agenzia di valutazione del sistema universitario e degli enti di ricerca, meglio nota come Anvur, infatti, avrà ben poco di terzietà visto che, per esempio, i componenti del consiglio direttivo insediatosi agli inizi di maggio, provengono dallo stesso mondo che sono chiamati a giudicare. Certo, tutti i professori universitari, compreso il suo presidente Stefani Fantoni, professore ordinario della Scuola superiore di studi avanzati di Trieste, hanno dovuto lasciare i propri incarichi, ma è altrettanto vero che non è facile spogliarsi del tutto di un abito che si è indossato da anni e ispirarsi concretamente «ai principi di imparzialità, professionalità, e trasparenza». Che dire poi dell'indipendenza rispetto al ministero dell'università? Difficile non avere influenze da chi l'università la governa quando si condivide uno stesso spazio. Infatti, anche se sul sito internet è precisato che si tratta di una collocazione temporanea, per ora i componenti dell'Anvur sono stati collocati al quarto piano dí piazzale Kennedy, sede proprio del ministero dell'università dove spesso è presente anche il ministro Gelmini quando non si trova nelle stanze dí viale Trastevere a occuparsi di scuola. Ciliegina sulla torta, il sito web ufficiale che, come si legge nella home page «è in fase di allestimento, e sarà operativo quanto prima». Del resto non c'è fretta, in fondo di Agenzia di valutazione si parla solo da quattro anni.
(Fonte: Moustique, ItaliaOggi 04-07-2011)
 
Per la riforma universitaria delle Accademie di Belle Arti PDF Stampa E-mail

Dal 1990 gli studenti delle Accademie di Belle Arti italiane attendono di entrare nel sistema universitario. Resistenze accademiche, sindacali, ministeriali, e governative lo hanno impedito e vogliono ancora impedirlo. Sono 21 anni che gli studenti delle Accademie di Belle Arti vengono ingannati dal Ministero e dalle Accademie, che affermano di rilasciare lauree.

La Legge di Riforma 508/99 delle Accademie di Belle Arti risulta irrimediabilmente anacronistica perché taglia l’Italia fuori dal sistema di istruzione universitaria superiore così come esso viene declinato da tempo nei grandi paesi europei e di tutto l’occidente, mentre le profonde mutazioni del contesto culturale, sociale ed economico mondiale degli ultimi venti anni hanno rafforzato la relazione e lo scambio tra formazione artistica universitaria e realtà produttive (cinema, televisione, pubblicità, management culturale, mercato dell’arte, comunicazione multimediale, internet). Le Accademie come le Università (art. 33 della Costituzione) in quanto Istituzioni di Alta Cultura sono fondamentali per la crescita e lo sviluppo dell’Italia.

Se oggi è possibile in Italia laurearsi (3+2 o 5), prendere un Dottorato di Ricerca, essere un Professore Ordinario o un Professore Associato o un Ricercatore dalla Biologia all’Educazione Fisica, deve essere possibile farlo anche in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo, in Progettazione e Arti Applicate, in Didattica dell’Arte.

Le Accademie di Belle Arti non possono più attendere. Devono essere valorizzate per ciò che sono: istituti di ricerca, sperimentazione e produzione artistica e culturale.
(Fonte: Comitato promotore per la riforma universitaria delle Accademie di Belle Arti, www.culturame.it 28-06-2011)
 
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