Home 2011 5 Settembre
5 settembre
Illusori i risultati della legge sul controesodo dei talenti PDF Stampa E-mail
Una legge bipartisan, in vigore da otto mesi, che avrebbe dovuto incentivare il ritorno dei talenti italiani con una riduzione della pressione fiscale non decolla ancora. I decreti attuativi sono arrivati solo a giugno e restano molti dubbi sulla sua concreta applicazione. L'idea (bipartisan) è che, riducendo le tasse ai giovani laureati eccellenti emigrati, essi rientrino nelle università e nelle imprese italiane. Di là dalle difficoltà attuative della legge (le procedure e le condizioni per ottenere lo sconto fiscale non sono chiare, come peraltro avviene per la maggioranza delle leggi italiane), esiste una ragione profonda per cui questa legge servirà a poco: i fondamentali della nostra economia e società, essendo totalmente lontani dalla meritocrazia e dalla valorizzazione dell'eccellenza, allontanano i «cervelli» italiani e non attraggono quelli stranieri (l'obiettivo non dovrebbe neanche essere il «controesodo» ma una «bilancia di talenti» in pareggio: tanti ne emigrano quanti ne arrivano). Dove vanno di solito i giovani laureati eccellenti, i cosiddetti «talenti»? Nelle università e nelle imprese migliori, che però in Italia, a parte qualche eccezione, scarseggiano: le università perché non c'è un solo ateneo italiano tra i 100 migliori del mondo (e uno scienziato eccellente vuole fare ricerca in università eccellenti); le imprese perché la prima vittima del «piccolo è bello» sono stati i laureati (eccellenti e meno eccellenti), dato che di solito sono le grandi imprese ad assumerli e a valorizzarli e non quelle piccole (perché mai un'impresa che vuole rimanere piccola, magari facendo del «nero» la sua arma competitiva, dovrebbe assumere un laureato?). Ci sono solo due modi per attrarre più talenti in Italia. Il primo è una drastica riforma dell'università, ripensandone la governance e i criteri di finanziamento. Il secondo è una robusta iniezione di sana concorrenza nel mondo delle imprese italiane con l'obiettivo che il nostro Pil tra vent'anni provenga per il 30 per cento da medie e grandi imprese (oggi lo è per il 3%). E su queste riforme che i giovani (e un po' ingenui) politici, promotori della legge in questione, dovrebbero concentrarsi per avere un vero «controesodo» di cervelli: senza meritocrazia nelle università e nelle imprese italiane uno sconto fiscale servirà a ben poco.
(Fonte: R. Abramavel, Corsera 31-08-2011)
 
Convegno: “Autonomia universitaria e rappresentanza delle comunità accademiche, dei saperi e delle discipline”. 16 settembre. MIUR PDF Stampa E-mail
Lunedì 19 settembre alle 9,30, si terrà al Miur (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), un’importante conferenza dal titolo “Autonomia universitaria e rappresentanza delle comunità accademiche, dei saperi e delle discipline”. Il convegno farà luce sulla nuova riforma del sistema universitario riguardanti i temi dell’autonomia scientifica e del ruolo riconosciuto alle comunità accademiche. L’incontro è stato organizzato dalle Società scientifiche delle Scienze giuridiche con il patrocinio del Consiglio universitario nazionale che si fa carico di garantire tante delucidazioni sull’argomento. Saranno presenti e introdurranno il convegno due importanti figure dell’ambito accademico: Andrea Lenzi, presidente del Consiglio universitario nazionale e docente di Endocrinologia della Sapienza e Carla Barbati, componente Cun dell’area di Scienze giuridiche, docente dello Iulm. In particolare, s’intende ragionare su diverse tematiche: quali siano i nuovi equilibri di governo del sistema; quale rapporto venga a instaurarsi tra meccanismi di valutazione e autonomia scientifica e della ricerca; quale ruolo e voce debba essere riconosciuto alle comunità accademiche, dei saperi e delle discipline; quale contributo esse possano dare all’individuazione degli indicatori di scientificità e rilevanza dei loro prodotti; quali possano essere le sedi, le forme e i modi di interlocuzione tra le comunità scientifiche e gli altri soggetti del sistema.
 
Il CNR PDF Stampa E-mail
Il Consiglio Nazionale delle Ricerche è il più grande ente di ricerca pubblico del nostro Paese che gestisce un budget di circa 1 miliardo di euro, il 50% del quale proviene dal ministero mentre il rimanente da progetti di ricerca internazionali cofinanziati da privati. Costituito nel 1923 e trasformato nel 1945 in organo dello Stato e divenuto nel 2003 ente pubblico nazionale, svolge prevalentemente attività di formazione, di promozione e di coordinamento della ricerca in tutti i settori scientifici e tecnologici. Il Cnr è una realtà di oltre 8200 dipendenti, di cui oltre quattromila ricercatori, dislocati in più di 100 Istituti riuniti in 11 dipartimenti, attivi nei principali settori della ricerca scientifica e umanistica. A questi si aggiungono oltre tremila giovani ricercatori.
 
I ranking di Shanghai e di Forbes PDF Stampa E-mail

Gli accademici cinesi dell’Arwu - l'Academic Ranking of World Universities - valutano più di mille università del mondo: in piena estate pubblicano una classifica delle migliori 500. Conosciuto come il ranking di Shanghai, poiché nato nell’ambito della Jiao Tong University nel 2003, anche quest’anno mette al top della classifica università americane con le inglesi Cambridge e Oxford. La prima è Harvard, seguono nella top Ten, Stanford University, il Mit, University of California, Berkeley, Cambridge, California Institute of Technology, Princeton University, Columbia , Chicago University e l’Università di Oxford. In coda le italiane.

Le università americane in classifica sono ben 151. È un numero che non cambia da anni, anche la loro posizione (otto nelle prime dieci e 17 nelle prime 20) è solida alla guida di una selezione guardata con molta attenzione proprio dagli asiatici, da giovani e famiglie che scelgono come orientare il loro investimento, studiano le politiche degli atenei che accolgono volentieri i diplomati dall’Asia, in particolare da Giappone, Cina e Corea. Quegli studenti che vincono i campionati mondiali di matematica, e che magari progettano di trasferirsi negli Usa per migliorare la loro formazione, mentre sognano di portare a casa un Nobel made in China.

Proprio la presenza di premi Nobel nati nelle università della classifica Arwu è uno dei criteri che pesa di più. È valutato proprio il numero dei Nobel in ogni ateneo, la quantità di articoli pubblicati su riviste di rilievo internazionale, soprattutto le grandi riviste scientifiche e il numero di citazioni scientifiche. Gli inglesi, che sono presenti con 37 atenei, con posizioni di tutto rispetto, le due migliori Oxford e Cambridge tra le top 10, hanno pubblicato i primi commenti valutando i motivi di una presenza quasi monolitica delle università americane al vertice delle migliori classifiche del mondo. Howard Hotson, docente di Storia a Oxford sostiene – come riporta il Time Higher Education – che su queste classifiche, come in altri ambiti, pesa l’investimento che gli Stati Uniti fanno sull’istruzione superiore, oltre il 3% del Prodotto Interno Lordo, rispetto all’1,3% del Regno Unito.

Una magra consolazione anche per l’Italia, che seguendo questo ragionamento - l’investimento sull’istruzione universitaria in Italia raggiunge a malapena lo 0,88% del Pil - potrebbe addirittura esser contenta di vedere le proprie università valutate dal ranking di Shanghai a partire da quota 102 sino alle ultime cento classificate su 500: l’Università di Pisa e la Sapienza sono nel segmento che va dal 101esimo al 150esimo posto, seguono la Statale di Milano e Padova classificate tra quota 151 e 200. Poi per trovare le italiane si deve scorrere la classifica dalla fine: infatti la Cattolica, l’Università di Torino, di Bari, Ferrara, Parma, Pavia Perugia e Siena stanno sotto la 401esima posizione. In mezzo, da 200 a 400, si sono classificate l’università di Bologna, il Politecnico, la Normale di Pisa, l’università di Firenze, di Genova, Federico II di Napoli, Tor Vergata e Palermo.

Notizie certamente migliori provengono da un’altra classifica quella pubblicata una settimana fa da Forbes: Sda Bocconi è quarta tra le business school al di fuori degli Usa, tra i migliori programmi di Master in Business administration. Infatti, la settima edizione del ranking biennale delle business school di Forbes - l’influente mensile statunitense di economia, premia la Sda Bocconi, frequentata da oltre il 70% da laureati stranieri, che scala quattro posizioni, scavalcando anche Oxford e Cambridge, e colloca il suo Mba al quarto posto nella classifica dei programmi che durano solo un anno. Il ranking di Forbes è basato sul ritorno assoluto dell’investimento per il programma che i diplomati hanno ottenuto nei cinque anni successivi all’Mba (il denaro mediamente guadagnato al netto del costo d’iscrizione e del mancato salario nel periodo di frequenza).

Nella classifica mondiale di Forbes restano al top le business school Usa, ancora Harvard, Stanford, Columbia, Wharton: “Com’è possibile che ancora si paghi un biennio a Stanford 275 dollari? Si chiedono gli esperti americani. Nonostante la crisi, e l’indebitamento record degli Stati Uniti, sino all’anno scorso chi usciva da un Mba tra i top di Forbes ha visto salire il salario del 53%, e oggi più che mai le grandi aziende stanno vicine a queste scuole.

Gli stessi top manager che le hanno frequentate le finanziano come ex alunni per vederle evolvere e migliorare. Quest’anno, le attività di reclutamento all’interno dei campus di queste business school sono aumentate del 70%, anche se le assunzioni restano sotto il livello del 2008. La formazione dei capi d’impresa è un affare molto serio negli Usa, oggi sono le aziende come Google, Amazon, Facebook, Apple, che assumeranno i migliori tra questi diplomati Mba.
(Fonte: L. Oliva, linkiesta.it 26-08-2011)
 
La classifica delle università americane più verdi PDF Stampa E-mail
Una gran parte dei campus americani abbonda di spazi verdi che rasserenano e fanno respirare benessere apportando concreti vantaggi, con il loro fresco fascino, all’ambiente circostante. La Sierra Club, l’associazione ambientalista più grande degli Stati Uniti, alla quale sono associati 1,4 milioni di persone, ha stilato la classifica delle 20 Università americane più verdi, le "coolest schools" che attraverso un sistema esclusivo, totalmente made in USA, hanno promosso comportamenti e iniziative ecosostenibili per gli studenti che frequentano i campus dando, così, vita anche a programmi di educazione ambientale. In vetta alla classifica si trova l’Università di Washington che si è impegnata tantissimo grazie alle tante attività che hanno interessato gli studenti, attraverso programmi che si concentrano sulle responsabilità ambientali che hanno reso ancora più “green” il proprio campus. A seguire, nella classifica, il Green Mountain College nel Vermont, mentre le ultime, solo in classifica, sono il Bowdoin College nel Maine e l’Università del Maryland.  "Siamo entusiasti di poter evidenziare l’attività di questi istituti che si soffermano sulla responsabilità ambientale e che ispirano gli studenti per influenzare un reale cambiamento" dice Bob Sipchen, editore capo di Sierra magazine, il giornale dell’associazione sul quale e’ stata pubblicata la classifica. La creazione di un Centro per le foreste sostenibili, l’avvio dell’Alaska Salmon Program e di un Centro per la salute ambientale ed ecogenetica. In più un bonus, il 90% dell’energia del campus è idroelettrica sono alcune delle iniziative comprese nelle attività svolte dalle Università, spiega Sierra Club.
(Fonte: controcampus.it 26-08-2011)
 
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