Home 2012 20 Febbraio A PROPOSITO DELLE AFFERMAZIONI DI UN VICEMINISTRO SUL RITARDO NELLE LAUREE
A PROPOSITO DELLE AFFERMAZIONI DI UN VICEMINISTRO SUL RITARDO NELLE LAUREE PDF Stampa E-mail
Un problema di durata degli studi esiste: l’età media per la laurea di primo livello (triennio) è di 26 anni, solo un terzo dei laureati ha 23 anni o meno, circa il 20 per cento si laurea oltre i 27 anni. Gli studenti che si laureano dai 25 anni in su sono oltre il 36 per cento. Per fare un confronto con un paese in cui l’università funziona un po’ meglio, nel Regno Unito la percentuale corrispondente è di circa il 25 per cento (ma scende al 14 per cento fra gli studenti full time). In Italia resta poi alto il numero di abbandoni: il 18 per cento lascia dopo il primo anno, con un leggero miglioramento rispetto al 27 per cento del periodo pre-riforma. La percentuale corrispondente nel Regno Unito è l’8 per cento. Il problema, per un esponente dell’esecutivo, dovrebbe dunque essere cercare di capire il perché di questi numeri e proporre soluzioni. 
Esiste poi un altro: la probabilità di laurearsi dipende molto dal background famigliare. Sebbene quasi il 40 per cento dei maschi in età 45-69 anni (che hanno probabilmente figli in età da università) abbia la licenza elementare o meno, solo il 10 per cento dei laureati proviene da famiglie in cui il padre ha la licenza elementare. Se si guarda al livello d’istruzione della madre le cose vanno anche peggio. Risultati analoghi si possono ottenere, com’è facile immaginare, se si considerano le professioni (e presumibilmente il reddito) dei genitori anziché il loro livello d’istruzione. A prescindere dall’età, dunque, la laurea resta parecchio meno probabile se si proviene da un background familiare poco favorevole. Detto questo cerchiamo ora di capire chi sono gli “sfigati” secondo la definizione vice ministeriale. Non è sorprendente constatare che gli studenti che lavorano tendono a laurearsi più tardi, come si può vedere dalla tabella qui sotto. (4) La percentuale di chi si laurea a 27 anni e oltre è del 21 per cento, ma sale al 73 per cento se si è lavoratori-studenti. È un indicatore di demerito? Probabilmente no, che si lavori per necessità o per acquistare esperienza diretta del mondo del lavoro, cosa peraltro molto comune all’estero. Resta però un 20 per cento che si laurea a 25 anni o più pur non avendo mai lavorato. Tutti i laureati che hanno il padre con licenza elementare, il 35 per cento si laurea quattro o più anni fuori corso. La percentuale scende al 20 per cento se il padre è laureato. Analogamente, un laureato proveniente da un’università del Nord-Ovest ha il 20 per cento di probabilità di essersi laureato quattro o più anni fuori corso. In Sicilia e Sardegna la probabilità sale al 35 per cento. Non mi pare azzardato dire che queste correlazioni riflettono una distribuzione delle opportunità piuttosto asimmetrica nella società e nel territorio del nostro paese. Studenti con meno mezzi a disposizione o che studiano al Sud fanno più fatica a tenere il passo.
Forse bisognerebbe apprezzare di più l’impegno di tanti studenti che provengono da ambienti poco favorevoli e sono immessi spesso in università tutt’altro che efficienti, ma che riescono comunque a portare a termine i propri studi. Le affermazioni del viceministro sugli “sfigati” appaiono allora emblematiche dei peggiori problemi dell’università italiana. Ben venga dunque porre la questione di un’università che non funziona come dovrebbe. Farebbe anche piacere vedere un ministro sfruttare la sua visibilità per richiamare l’attenzione sulla scarsa mobilità sociale che caratterizza il nostro paese nei confronti internazionali.
(Fonte: V. Lancinese, Lavoce.info 31-01-2012)