Home 2012 25 Giugno
25 Giugno
BORSE DI STUDIO E RICERCA ALL’ESTERO PDF Stampa E-mail

Le opportunità non mancano per frequentare un periodo di studio all'estero o un percorso di formazione in azienda per arricchire la propria preparazione. La trasferta ha spesso un costo elevato da sostenere, ma sono gli stessi Paesi ospitanti a offrire ogni anno sostanziose borse di studio a studenti, ricercatori e laureati che frequentano le proprie università o i centri di ricerca, ma anche tirocini formativi e scuole di specializzazione.
Per fare una sorta di giro del mondo delle opportunità per il prossimo anno accademico basta consultare il sito del ministero degli Esteri che funziona da raccordo per tutte le organizzazioni internazionali o le singole ambasciate presenti in Italia: ci si accorge subito della vastità dell'offerta, sia per numero di Paesi e modalità di erogazione dei finanziamenti, sia per l'entità degli aiuti economici che in alcuni casi arrivano a coprire lunghi periodi.
Per chi vuole restare in Europa, è possibile frequentare dai due ai cinque mesi di ricerca in Francia: il bando è riservato a dottorati e dottorandi in lingua, letteratura o cultura francese sotto i 35 anni.
Il Paese che offre maggiori opportunità in questo momento è però l'Australia con il programma «Endeavour Awards» che permette di trascorrere un periodo per seguire corsi di formazione, master, programmi di studio o ricerca post-laurea e dottorati di ricerca in qualsiasi disciplina. Possono presentare domanda entro il 30 giugno sia gli studenti universitari (per loro è previsto fino a un massimo di 4 mesi di soggiorno) sia i laureati: notevole l'importo della borsa di studio che nei casi di specializzazione pluriennale può arrivare fino a un finanziamento complessivo di oltre 200mila euro.
Anche in Nuova Zelanda è possibile frequentare un dottorato di ricerca per tre anni: ai selezionati, tra coloro che presentano la domanda entro il 15 luglio, spetta un assegno mensile di circa mille euro, un fondo per le spese di viaggio e l'assicurazione sanitaria.
Per incentivare la ricerca scientifica, invece, il Research Grants Council di Hong Kong entro il 1° dicembre offre ben 135 borse di studio per tre anni: ai dottorati spetta un assegno mensile di duemila euro oltre a un sussidio annuale per sostenere eventuali viaggi.
Se la meta che ci si prefigge sono gli Stati Uniti è bene tenere sott'occhio tutto quello che offre la Commissione Fulbright. È possibile ottenere borse di studio per specializzarsi in un'università, ma anche fare tirocini e seguire progetti sostenuti dalle aziende: entro il 4 dicembre, per esempio, si può presentare domanda per frequentare master, Mba e stage presso aziende americane grazie al contributo delle borse di studio Fulbright-Best. Si tratta di un percorso formativo di un anno finanziato con un contributo di 28mila euro per tasse universitarie e soggiorno, a cui si aggiunge un rimborso per le spese di viaggio di 1500 euro.
In ciascun bando vengono indicate le varie opportunità di soggiorno a breve e a lungo termine riservate non solo a laureati e ricercatori in qualsiasi disciplina, ma anche a studenti in regola con gli esami, a laureandi, a dottorandi e agli artisti (per scuole di cinema e regia, per esempio). Tipologie di borse, scadenze e requisiti variano di volta in volta: tra i requisiti necessari più spesso richiesti c'è la conoscenza dell'inglese con certificato Toefl o Ielts, la laurea di secondo livello (o un numero minimo di esami sostenuti nel caso di studenti universitari) e talvolta una lettera motivazionale.
Tempi e scadenze per la presentazione delle domande, che si trovano in versione online sul sito www.esteri.it variano a seconda del Paese e da settembre fino ad aprile 2013 saranno pubblicati i nuovi bandi per l'anno accademico 2013/2014.
(Fonte: E. Della Ratta, IlSole24Ore 11-06-2012)

 
RICERCATORI. SULL’OBBLIGO DI PRESENZA IN SEDE PER I RICERCATORI DELLE UNIVERSITÀ TELEMATICHE PDF Stampa E-mail

In una recente sentenza il Tar del Lazio è intervenuto facendo chiarezza in relazione agli obblighi di presenza in sede dei ricercatori universitari assunti presso atenei telematici riconosciuti dal MIUR. Su richiesta di una ricercatrice dell'Ateneo UTIU - Università Telematica Internazionale Uninettuno, il Tar Lazio si e' espresso a favore dell'"annullamento previa sospensione" del verbale della riunione del Consiglio di Amministrazione dell’UTIU n. 34 del 14.9.2011 nel quale veniva stabilito "l’obbligo di presenziare per tre giorni a settimana per tutti i mesi dell’anno dei ricercatori di ruolo e a tempo determinato che hanno optato per il tempo pieno”. Nel verbale era altresì stabilito l’obbligo di presenza in sede per i restanti due giorni a settimana, unitamente ad un sistema di rilevazione personale tramite badge, nonché l’istituzione di un Collegio di Disciplina e l’adozione del Codice Etico”. Col suo pronunciamento il Tar ha invece affermato che stante la legislazione vigente non sussiste "alcun obbligo per il ricercatore di essere presente fisicamente in sede per un numero minimo di giorni a settimana, ma si limita a prevedere un monte-ore massimo annuo per l’attività integrativa e di supporto, che il ricercatore può gestire con le modalità previste nel regolamento di ateneo. Anche quest’ultimo, peraltro, non può imporre alcuna presenza giornaliera settimanale ma deve limitarsi a richiamare la necessità di autocertificazione mensile della presenza del ricercatore, con obbligo di preventiva autorizzazione per le assenze (ovviamente programmate e programmabili), ribadendo l’autonomia della gestione da parte del singolo ricercatore, ferma restando la necessità di valutazione della verifica dei risultati da parte del Nucleo di Valutazione".
Il Tar ribadisce in sostanza che la normativa vigente garantisce la piena autonomia ai ricercatori in relazione all’attività didattica e di ricerca, fermi restando il limite massimo di ore per l’attività di didattica integrativa e di servizio agli studenti e le modalità di verifica previste dal regolamento di ateneo.
(Fonte: sentenza Tar Lazio 4927 del 31 maggio 2012)

 
QUALI OBIETTIVI E VALORI NELLA VALUTAZIONE DELLA RICERCA? PDF Stampa E-mail

Frutto di un’accettazione più o meno convinta, più o meno consapevole, più o meno rassegnata, l’attiva collaborazione dei settori scientifici è l’esito di una sistematica opera di persuasione, anche retorica, che conferma qualcosa di ben noto nella letteratura sull’argomento: ossia che la valutazione, come del resto tutti i dispositivi di controllo caratteristici dei nostri tempi («inspection age») e dei nostri sistemi sociali («audit society»), necessita di non essere avvertita come un corpo estraneo e invasivo ma come una prassi ovvia, naturale, che insomma non desti sorpresa. In prima battuta la direzione degli individui avviene oggi non più limitando direttamente le libertà, ma «liberando» autonome razionalità di auto-governo e autocontrollo (self-empowerment, self-management, self-accountability, ecc…) e, con esse, pratiche capillari di controllo reciproco: catene in cui ciascun anello sollecita quello vicino alla medesima condotta responsabile. Una volta acquisito l’habitus mentale adeguato («cambiare le menti», dice qualcuno) la macchina può partire; anzi, deve partire. Se una volta era nozione comune «Meglio nessuna valutazione che una cattiva valutazione», velocemente si è approdati al «Una valutazione è comunque necessaria» e adesso – ostinato di contro alle evidenze o rassegnato all’ineluttabile – campeggia il «Meglio anche la peggiore valutazione». Ma … meglio o peggio, buono e cattivo – in vista di cosa? Ne La scienza come professione Max Weber parla dell’impossibilità di presentare «scientificamente un atteggiamento pratico, tranne il caso della discussione sui mezzi per uno scopo che si presuppone dato». Forse si dovrebbe partire da questa consapevolezza, unita alla consapevolezza che sempre, nell’atto di definire metri e misure, si pongono anche gli obiettivi. All’opposto, giudicare cosa sia meglio o peggio senza avere esplicitato in relazione a quale obiettivo, o senza avere neppure presente con chiarezza l’obiettivo, è un esercizio soltanto astratto, ma non per questo privo delle peggiori ricadute concrete.
Rispetto a questioni del genere si avverte da noi un’insofferenza. Eppure altrove il dibattito scientifico sulla valutazione non guarda con sospetto agli aspetti teorici. Per esempio, capisce l’importanza – anche solo per evitare nella pratica gli errori più grossolani – di distinguere tra «valutazione ristretta» e «valutazione ampia», ciò che non corrisponde alla dicotomia elementare «valutazione interna» e «valutazione esterna», nel senso del riferimento al «chi» valuta (autovalutazione o agenzie terze), ma esprime una distinzione funzionale, riconducibile alla questione formale «Su quali basi normative si viene valutati?». La valutazione infatti (nesso ovvio a cui non sempre si pensa) opera in riferimento a valori. Bisogna quindi distinguere quali sono i valori che la guidano: se (valutazione ristretta) norme e valori costitutivi di una specifica disciplina scientifica – la quale sempre, in virtù di questo riferimento, premia o sanziona determinate azioni e risultati – oppure (valutazione ampia) la compagine di norme e valori di volta in volta dominanti nella società di appartenenza, certo non privi di influenza sulla scienza, ma in linea di principio distinti da quelli che vigono al suo interno.
La distinzione diventa decisiva in questioni come l’allocazione delle risorse, le scelte relative alle aree di ricerca da promuovere o dismettere e i progetti da sostenere, la delineazione dei profili professio­nali da perseguire. Di fatto «l’organizzazione liberale della scienza», il principio per cui essa va lasciata autorganizzarsi sul presupposto della sua naturale fecondità per il progresso economico-sociale, si è ristretto a spazi d’élite. Con l’entrata in scena dei «legittimi portatori di interesse» e della parola d’ordine «value for money» (sono soldi pubblici, bisogna renderne conto pubblicamente), si ritiene giustificato indicare alla ricerca le vie da battere, i rami da tagliare, le relazioni da stringere, i modelli da assumere. Su queste materie parrebbe che le decisioni non possano essere rimesse a studiosi e scienziati, ma neppure – questo è il nodo – possano prescindere da loro. Ciò genera tensioni inevitabili, oggetto di una vera e propria assiologia del sapere scientifico.
(Fonte: V. Pinto, roars 17-06-2012)

 
VALUTAZIONE DELLA RICERCA. “HOBBY” DELLA BIBLIOMETRIA PDF Stampa E-mail

Da qualche tempo tra i professori universitari di lingua italiana si è diffuso l’hobby della bibliometria. Cosa è la bibliometria? E’ una disciplina scientifica nata non più di 70 anni fa con cattedre, corsi di Phd, decine di riviste internazionali, e che studia con tecniche quantitative i prodotti della ricerca scientifica. Due ambiti particolari di studio sono l’analisi della produttività scientifica (quanti lavori vengono pubblicati) e della diffusione del sapere scientifico attraverso l’analisi delle citazioni. Uno dei passatempi preferiti di molti professori di lingua italiana è dunque produrre classifiche di scienziati, misurando il loro h-index. Non ci sarebbe nulla di male, se le classifiche bibliometriche dei migliori scienziati fossero compilate e fossero oggetto di pettegolezzi e maldicenze tra accademici. Il problema è quando le classifiche fai-da-te diventano lo strumento per mostrare con l’obiettività dei numeri all’opinione pubblica le malattie del sistema universitario occupato dai baroni. Circolano in rete due classifiche dei migliori scienziati italiani, che ogni tanto vengono anche citate dalla stampa. Sono entrambe basate sul più famoso degli indicatori bibliometrici l’indice h: se uno scienziato ha un indica h di 25 significa che ha pubblicato almeno 25 articoli che hanno ricevuto almeno 25 citazioni ciascuno. Valori dell’indice h più elevati dovrebbero quindi individuare scienziati più produttivi e più citati. Una di queste due classifiche mette insieme scienziati delle più differenti discipline, confrontando l’h index di un medico con quello di un fisico con quello di un economista. Tra chi si occupa professionalmente di bibliometria è conoscenza comune che questo modo di procedere è sbagliato. Per la ragione che le modalità di pubblicazione e citazione sono molto diverse nelle diverse discipline. Nella fisica delle alte energie un articolo scientifico può avere centinaia di autori e il capo di una laboratorio produce centinaia di pubblicazioni in un anno che danno luogo ad una quantità molto elevata di citazioni. Che senso ha fare un confronto con uno storico che produce un ponderoso libro frutto di 5 anni  di lavoro? I confronti vanno tra scienziati appartenenti allo stesso campo di ricerca.  Quindi la classifica non ha molto senso perché elimina dall’elenco scienziati produttivi e citati nel loro campo disciplinare, ma che non possono aspirare a valori elevati di h. Una delle frontiere della ricerca bibliometrica è proprio la comparazione corretta tra ambiti disciplinari diversi, ma allo stato attuale non sono disponibili soluzioni semplici e condivise. Secondo problema di queste classifiche: sono basate sul database Google Scholar disponibile liberamente su Web. Si tratta di un database che allo stato attuale non è affidabile.
Ecco alcuni scienziati che se fossero italiani non figurerebbero nella classifica dei TIS (dati Scopus). Charles K. Kao ha un modestissimo h=1, poco più alto quello di George E. Smith che ha un h=5 mentre si ferma a 7 quello di Willard S.  Boy. Questi apparentemente modesti studiosi sono stati insigniti del Premio Nobel per la Fisica nel 2009. Nel 2008 Toshinida Maskawa veniva premiato con il Nobel per la fisica: h-index pari ad 1. Tutti i premi Nobel per l’economia degli ultimi 5 anni hanno un valore di h inferiore a 30, addirittura Leonid Hurwicz (Nobel 2007) si ferma a 7. I tre premi Nobel del 2010 hanno valori di h di 12 (Mortensen), 17 (Pissarides) e 19 (Diamond). Sicuramente Grigori Perelman non entrerebbe nella classifica dei TIS; ha un modestissimo 1. Ha vinto la medaglia Fields nel 2006, l’equivalente del Nobel per i matematici.
(Fonte: A. Baccini, roars 18-06-2012)

 
VALUTAZIONE DELLA RICERCA. CLASSI DI MERITO DELLE RIVISTE NEL GEV 13 PDF Stampa E-mail
Non tutti i GEV (Gruppi di Esperti della Valutazione) intendono utilizzare i percentili ministeriali nell’articolazione in classi di merito delle riviste. La condizione per poterli utilizzare è in effetti quella di un “ordinamento” delle riviste in base a un qualche indicatore quantitativo, condizione che in molti ambiti disciplinari non può essere soddisfatta. Altri GEV stanno invece “sperimentando” non solo l’uso degli indicatori bibliometrici quando questi mancano ma anche l’articolazione in classi di merito sulla base dei discutibili percentili ministeriali. Un caso davvero speciale e illuminante è il GEV13, a quanto pare intenzionato a seguire in modo scrupoloso le indicazioni del ministero relative alle articolazioni in classi di merito delle riviste. Terminata la complessa fase di imputazione degli indicatori bibliometrici all’universo di riviste, il GEV13 procederà infatti ad articolare nelle quattro classi di merito le riviste, utilizzando come criterio i percentili indicati dal ministero: le riviste al di sotto del 50° percentile (la mediana) saranno quindi valutate 0, mentre i pesi 0,5, 0,8 e 1 saranno assegnati rispettivamente alle riviste comprese tra il 50° e il 60° percentile, a quelle tra il 60° e l’80° per finire a quelle superiori all’80° percentile. Questa procedura presenta due evidenti distorsioni: la prima imputabile alla scelta del ministero di aver spostato verso la mediana la soglia dell’accettabilità scientifica, senza aver valutato le conseguenze in termini di ingiustificata compressione della classe C che questa scelta avrebbe comportato; la seconda attribuibile al GEV13 stesso, che pare muoversi nell’inconsapevolezza che la pedissequa applicazioni dei percentili ministeriali potrà produrre un’inaccettabile aleatorietà, per il semplice fatto che la classifica sarà fortemente dipendente dall’ampiezza dell’universo su cui verranno calcolati i percentili.
(Fonte: T. Maccabelli, roars 14-06-2012)
 
RENDERE PUBBLICHE LE VALUTAZIONI INDIVIDUALI DI ALCUNI LAVORI SCIENTIFICI DEI DOCENTI UNIVERSITARI? PDF Stampa E-mail
I professori Andrea e Pietro Ichino (Corriere della Sera, 14 giugno) chiedono che alcuni passi intermedi del processo di valutazione di intere istituzioni, passi che consistono in una valutazione di alcuni lavori scientifici dei professori, siano resi noti per consentire anche a chi non è competente della materia, un giudizio sull’attività scientifica dei professori. Giustamente il Presidente dell’Agenzia di Valutazione non ha aderito a questa richiesta, perché le inevitabili semplificazioni ed arbitri che si compensano in una valutazione collettiva, non sono tollerabili per una valutazione individuale. Possiamo aggiungere che nessuna valutazione individuale di un funzionario pubblico può basarsi su giudizi anonimi che non consentono di replicare. Invece sono proprio i giudizi di “anonimous referees” (letteralmente: arbitri anonimi) che vengono utilizzati dall’ANVUR. Non parliamo poi della pratica (giustificata per i grandi numeri) di giudicare un lavoro scientifico sulla base di una possibile graduatoria delle riviste, magari basata su un indice statisticamente criticabile e facilmente manipolabile come il cosiddetto “Impact Factor”. Infine, mentre è  sensato che una valutazione collettiva prenda in esame, per ogni autore, solo tre articoli degli ultimi anni, questa limitazione non ha più senso per le valutazioni individuali. In quanti articoli e con quale continuità si registrino i risultati della ricerca scientifica di un individuo dipende dalle caratteristiche della ricerca e dallo stile individuale. Fa bene quindi l’ANVUR a resistere a richieste demagogiche.
(Fonte: A. Figà Talamanca, roars 15-06-2012; si veda anche “il dibattito sulla trasparenza della valutazione della ricerca universitaria” nel sito di Pietro Ichino)
 
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