Home 2014 15 settenbre VARIE IL COMBINATO DISPOSTO TRA CRISI ECONOMICA E POLITICHE UNIVERSITARIE RECESSIVE
IL COMBINATO DISPOSTO TRA CRISI ECONOMICA E POLITICHE UNIVERSITARIE RECESSIVE PDF Stampa E-mail

Mi interessa un passaggio dell’intervento di Mario Morcellini sul cantiere sempre aperto dell’università italiana, pubblicato su Roars il 20 agosto. Significativamente si chiedeva chi stesse pagando il conto della crisi: mi riferisco in particolare a quanto egli scrive a proposito del combinato disposto tra crisi economica e politiche universitarie recessive [che ha] ulteriormente ridotto, nell’accesso all’istruzione universitaria, la già modesta quota di studenti provenienti da famiglie più deboli dal punto di vista delle chance.
Quando si parla di calo delle immatricolazioni (uno degli argomenti preferiti negli articoli sull’università che periodicamente appaiono sui nostri giornali) bisognerebbe uscire dal vago. Per ricordare che, in un paese che registra già nella fascia d’età compresa fra i 25 e i 64 anni una percentuale di laureati pari al 15% rispetto al 28% dell’Europa e al 31% dei paesi OCSE, non stiamo assistendo ad una generica riduzione della popolazione universitaria, ma agli effetti inequivocabili di politiche regressive. Il fenomeno è, infatti, contrassegnato da pesanti differenze di classe (uso un linguaggio “vetero”, ma non riesco a trovare un’espressione più appropriata): i dati sfornati annualmente da AlmaLaurea e AlmaDiploma ci ricordano che si iscrive all’università il 78% dei diplomati di estrazione borghese contro il 48% dei giovani di famiglia operaia. Anche il titolo di studio dei genitori influenza le scelte dei giovani, se è vero che l’89% dei diplomati provenienti da famiglie in cui almeno un genitore è laureato ha deciso di iscriversi all’università; i posti letto nelle case dello studente coprono il 2% della popolazione studentesca in corso, 5 volte meno che in Spagna, 8 volte meno che in Francia e Germania, 17 volte meno che nel Regno Unito; soltanto il 7% degli studenti universitari ottiene una borsa di studio, contro il 25,6% della Francia, il 30% della Germania e il 18% della Spagna. Nell’ultimo quinquennio il numero dei beneficiari è calato del 22%, mentre è aumentato nei paesi appena citati, e, scandalo nello scandalo, la percentuale di aventi diritto che riesce ad ottenere una borsa è molto variabile da zona a zona, se è vero che percentuali tra il 99 e il 100% delle richieste di aiuto finanziario approvate vengono soddisfatte al Nord e al Centro, mentre nelle regioni meridionali si oscilla fra il 65 e il 68%.
Questi numeri non sono ininfluenti sul dato disaggregato su base territoriale del calo degli iscritti: nell’ultimo quinquennio le iscrizioni all’università sono calate del 20% nelle regioni meridionali e del 5% in quelle settentrionali, a conferma che la crisi colpisce in modo più pesante proprio nei ceti sociali e nelle aree geografiche in cui maggiore sarebbe il bisogno di qualificazione.
Dati alla mano si può concordare, dunque, con la risposta che Morcellini si è data: il costo della crisi lo stanno pagando i più deboli.
Se a ciò aggiungiamo il fatto che dal 2004 nelle imprese italiane è andata progressivamente riducendosi la percentuale di nuovi assunti con un livello elevato di specializzazione, in controtendenza rispetto a quanto accadeva in tutti gli altri paesi europei, viene il dubbio che questa possa essere una delle cause della scarsa competitività delle nostre aziende e delle difficoltà che esse incontrano nell’uscire dalla crisi. E allora si affaccia l’ipotesi di un’altra e più inquietante risposta alla domanda posta nell’articolo di Morcellini: i conti dello smantellamento del sistema pubblico dell’istruzione superiore li pagherà l’intero paese.
(Fonte: G. Solimine, Roars 03-09-2014)